Metis alle origini del concetto di
intelligenza
MONICA LANFREDINI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 17 ottobre
2020.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]
Premessa: il presente saggio è stato suddiviso in quattro parti
pubblicate settimanalmente.
Prima, Seconda, Terza e Quarta Parte
Introduzione. Siamo abituati
a pensare all’intelligenza come a una facoltà misurabile della mente umana dalla
quale dipende una parte importante della vita di ciascuno. I concetti operativi
delle discipline che la studiano, così come quello popolare di abilità
cognitiva generale messa alla prova dalle circostanze della vita, hanno quasi
del tutto coperto nella coscienza collettiva due aspetti problematici: il primo
è che le abilità operazionali che esercitiamo, sviluppiamo e misuriamo
singolarmente potrebbero apparirci distinte per effetto di questo trattamento
culturale, ma essere in realtà tutte espressioni di uno stesso nucleo
funzionale; il secondo è che sicuramente quel potere della nostra mente che
chiamiamo intelligenza, qualunque sia la sua natura cerebrale, è interconnesso
con tutti gli aspetti della nostra vita psichica.
Questi due problemi riportano alla nostra
coscienza un fatto, ossia che il modo attuale di considerare l’abilità
emblematica del nostro potere cognitivo ha indotto all’oblio culturale l’approccio
creativo alla sua conoscenza, storicamente espresso dal pensiero greco arcaico
e antico. L’intelligenza che, per interpretare sé stessa, si rappresenta frammentata
in tante virtù, arti, proprietà, doti e risorse che costituiscono altrettanti
requisiti distintivi delle divinità olimpiche maggiori e minori, oppure si
esprime totalmente, personificandosi in una dea che esiste solo a questo fine,
potrebbe suggerire riflessioni e ispirare nuovi percorsi di ricerca.
Ma anche se questo scritto non si rivelerà, come è
probabile, utile per le neuroscienze, spero che possa valere per aver favorito
il piacere di immergersi in quella dimensione temporale che ha avuto il suo
maggiore teatro nello scenario eterno e naturale dell’azzurro terso e intenso del
cielo e del mare, alla luce di un sole senza tempo.
Chi era Metis e in cosa si
rappresentava. Il nome proprio Metis
identifica una divinità figlia di Oceano e Teti, che fu la prima sposa di Zeus,
dal quale fu ingoiata mentre era incinta di Atena; come nome comune, prima dell’epoca
di Platone, quando venne a designare la misura intesa quale cifra della
ragione greca, metis indicava un’accorta prudenza, una trovata d’astuzia
o una risorsa di ingegno, ovvero una manifestazione di intelligenza non
convenzionale o superiore all’ordinario.
Trascurata per secoli dai grecisti[1], anche
per le difficoltà d’interpretazione dei testi che la riguardavano, il fascino
della sua scoperta fu reso evidente a metà del secolo scorso dalla ricerca di
Henri Jeanmaire su La nascita di Atena e la
regalità magica di Zeus (1956)[2], e ben
presto divenne chiaro che l’arco temporale di indagine sulla sua natura avrebbe
dovuto coprire oltre mille anni, fino a Oppiano.
Gli studi successivi hanno definito un campo semantico
vasto e caratteristico legato alla metis e, soprattutto, hanno definito il suo
valore di mezzo per ottenere un risultato, risolvere un problema, venir fuori
da un’aporia, volgere a proprio vantaggio una difficoltà, inventare stratagemmi
o strategie in corso d’opera con perspicacia, sagacia, prontezza ed efficacia. Si
parla di metis anche per spiegare artifici magici, per descrivere i segreti di
un artigiano o di un artista valente, per indicare il ricorso a filtri o erbe
medicinali (pharmacon) e, sistematicamente,
per indicare i trucchi d’astuzia della volpe e del polpo. Ulisse, grande
maestro dell’inganno, è definito polumetis, cioè dalle tante risorse di metis.
Omero fornisce nel XXIII canto dell’Iliade, nell’episodio
dei Giochi, un esempio emblematico di metis. Il giovane Antiloco deve
affrontare nella corsa dei carri Menelao, i cui cavalli sono di gran lunga più
veloci e forti dei suoi: il pronostico lo vuole sicuro perdente, anche se Poseidone
e Zeus lo hanno dotato di abilità non comuni e della fortuna di essere figlio
di Nestore, il più esperto consigliere in fatto di tecniche in questo campo, capace
di dargli i suggerimenti migliori. Dopo aver tessuto le lodi della metis, per
incoraggiare Antiloco il padre dice che l’auriga esperto di tutti i trucchi, anche
se ha dei ronzini e non dei grandi corsieri, può vincere. Ma la trovata è frutto
dell’improvvisazione istantanea del giovane: giunti ad una brusca strettoia
della pista, corrosa in quel punto dalle acque di un temporale, Antiloco taglia
diritto la curva a tutta velocità precipitandosi, come se avesse perso il
controllo, contro il carro di Menelao; questi, sorpreso dall’improvviso pericolo
di impatto, istintivamente frena i cavalli e il giovane lo sorpassa, andando a vincere
d’astuzia una gara che di forza avrebbe sicuramente perso.
Ecco cos’è soprattutto la metis: l’intelligenza
che batte la forza. Per questo la sua rappresentazione non poteva avere
espressione migliore di una divinità femminile, stante la media naturale dei
corpi maschili caratterizzati da dimensioni maggiori e muscoli molto più
potenti.
Prima di provare a caratterizzare con vocaboli e
concetti impiegati dagli antichi greci questa particolare espressione dell’intelligenza,
desidero sottolineare che il modo in cui è intesa la metis indica più un atteggiamento
mentale complessivo al servizio del quale il soggetto pone le sue strumentalità
cognitive, che una singola facoltà mentale; pertanto, si presta particolarmente
alla personificazione. La metis non è la diligente esecuzione di un compito
predefinito, ma la virtù di trasformare in compito ciò che per la maggioranza è
un ostacolo insormontabile, trovare una via quando sembra di essere in un
vicolo cieco; ma anche porsi un problema che gli altri non considerano e riuscire
a risolverlo prima che gli altri lo comprendano. Perché la metis non è solo
questione di esecuzione di strategie e artifici, ma anche capacità di lettura
della realtà: è proprio dal modo in cui l’intelligenza formula un problema che dipende
il suo successo nel trovare una soluzione.
Dunque, la metis non è un’astuzia, magari appresa
in quanto tale e poi impiegata al momento giusto, ma uno stile psichico che
implica un particolare tipo di attenzione: come il grande detective è sempre un
buon osservatore, chi è dotato delle risorse della figlia di Teti tende
costantemente a tenere sotto controllo i segni che può cogliere nella realtà,
come indicato da un verbo greco poco noto, dokeúein,
termine tecnico della pesca, della caccia e della guerra, tradotto in genere
con spiare, ma che negli esempi di metis si potrebbe rendere in italiano
con scrutare, monitorare e, in alcuni casi, scandagliare. Un
esempio lo fornisce l’autore esiodeo dello Scudo[3], che usa
questo verbo descrivendo un pescatore accovacciato immobile in agguato con la
sua rete, pronto a lanciarla dispiegandola in tutta la sua estensione al primo
segnale che indichi il momento propizio per la cattura dei pesci. La circostanza
è semplice ma paradigmatica: anche se l’esecuzione dell’atto sarà immediata e
rapida, la sua preparazione è stata meditata con cura durante la paziente
attesa.
Se l’atto efficace o risolutivo può compiersi in
un istante nel modo più adatto all’occasione, non è mai una reazione d’istinto,
e infatti la metis si colloca agli antipodi dell’impulsività superficiale: chi è
dotato delle risorse di Nestore, Ulisse o Teti, paragonate spesso alla saggezza
(phronesis), coltiva le proprie doti con un esercizio costante di interpretazione
ed elaborazione della realtà che lo rendono profondo e mai banale, all’estremo
opposto dell’ephemeros, che per la sua
iperattività spensierata, con velocità di parola e azione, può essere scambiato
dal semplice per abile e capace, ma in realtà è solo un irriflessivo che, sfruttando
l’energia del temperamento allegro, riesce ad avere un impatto ad alta intensità
nel rapporto con gli altri, spesso rimanendo un irresponsabile inetto, alla
prova dei fatti.
Omero richiama l’attenzione sulla struttura della
metis: non è un’entità unica e omogenea al suo interno, al contrario si presenta
come multiforme ed eterogenea. Tre vocaboli possono esprimere in sintesi questo
concetto: molteplice (pantoíe), varia (poikíle) e oscillante (aíole).
La molteplicità è il connotato emblematico per
Nestore e, senza dubbio, Ulisse è caratterizzato come polútropos
e poluméchanos proprio in base a questo
requisito della sua intelligenza. Il frequente paragone di Odisseo con il polpo
non è superficiale: è metafora e analogia allo stesso tempo, perché il mollusco
è intelligente – e i Greci erano attenti osservatori delle sue strategie
per catturare prede e sfuggire a predatori – ma rende anche la molteplicità
con l’immagine degli otto tentacoli che si muovono indipendentemente. L’eterogeneità
o varietà fa riferimento soprattutto alla capacità di assumere prospettive, abiti
mentali o paradigmi differenti per comprendere, elaborare ed agire. Esopo
osserva in una favola che se la pantera (il leopardo)[4] ha il
pelo maculato, e perciò variegato (poikílos),
la volpe è variegata nello spirito[5].
Infine, l’oscillazione deve intendersi come
tentativo di caratterizzazione in rapporto al tempo, anche se molti autori
adoperano aíolos nel significato di cangiante, più che ondeggiante, con
un valore semantico che in parte si sovrappone a quello di poikílos.
Benveniste ha collegato aíolos ad aíon[6], che nel
greco arcaico voleva dire tempo e midollo spinale, in quanto si
riteneva che il tempo stabilito per la durata dell’esistenza di ciascuno fosse impresso
nel proprio midollo spinale. Aion, inteso come tempo
primordiale, è spesso rappresentato come un bambino che gioca a dadi[7]. Ma,
riferito alla metis, aíolos riguarda una temporalità diversa, più di ritmo
cangiante che di durata, e verosimilmente indica l’attività mentale costante,
seppure inapparente, che costituisce il dinamismo necessario all’esercizio dell’intelligenza[8].
Dalla Metis di Orfeo alla Seppia divina. Doveva
essere molto bella Teti, quella vera intendo, ossia la donna che ha ispirato il
mito della fanciulla cresciuta sull’Olimpo presso Era e poi diventata una Nereide,
perché Peleo aveva davvero perso la testa per lei, nonostante avesse sposato la
principessa Antigone, si fosse innamorata di lui Astidamia e fosse circondato
dalle donne più seducenti dell’epoca, compresa la principessa troiana
Andromaca, che fu sua concubina. Peleo voleva Teti a tutti i costi, ma lei gli
sfuggiva con mille astuzie; naturalmente il mito narra di metamorfosi della
dea, che aveva acquisito le virtù di Proteo, così da realizzare il ciclo
completo delle trasformazioni che la portò, da Nereide in grado di nuotare sott’acqua,
a mutarsi addirittura in una seppia. Cosa da scoraggiare anche il più passionale
degli innamorati, che di fronte al pallido mollusco avrebbe visto con buone
ragioni sbollire i propri ardori e arrendersi a un’evidenza mutata non più
nella forma, come vuole il termine metamorfosi, ma nella sostanza di una
procace promessa di felicità ridotta a un flaccido esemplare di cefalopode, nella
migliore delle ipotesi promesso alla casseruola. Ma non così Peleo, che inabissato
nel mare della Magnesia, in una grotta sottomarina riesce a far sua la tanto
agognata seppia divina.
Più avanti vedremo quanto emerge dai più antichi
documenti su questo mito e sulle tracce delle probabili vicende reali che lo
hanno ispirato, ma ora accantoniamo per un po’ il filo degli accadimenti
relativi alla madre della nostra protagonista per cercare di ricostruire il mosaico
dell’identità della Metis “orfica”, ossia nella cultura ispirata ad Orfeo. In
questo campo, lo straordinario lavoro di raccolta e interpretazione compiuto a
partire dagli anni Settanta da Detienne e Vernant ci consente oggi non solo di
tracciare un profilo per molti versi inedito della dea-ninfa, ma anche di
individuare un registro critico per comprendere le cause delle differenze nelle
tradizioni[9].
Un caso emblematico è costituito dal Papiro di
Derveni, un rotolo scoperto negli anni Sessanta ma, al di fuori di ristrette
cerchie di specialisti, ancora poco noto nei contenuti. Si tratta di un papiro
del IV secolo a.C. contenente un interessantissimo commentario a una teogonia
orfica che risale all’epoca arcaica: una miniera di informazioni sull’origine e
lo status degli dei e dei daimon, e una guida per comprendere l’ottica
di religiosi e filosofi che, a partire dal VI secolo, si sono posti sotto il
patrocinio di Orfeo per far circolare i loro discorsi sacri (Hieroi Logoi).
Metis nel Papiro di Derveni è addirittura la grande
divinità primordiale: altro che trascurabile ninfa del mare ignorata da
Omero, come ancora riporta qualcuno! Ma, prima di entrare in questo dettaglio,
è necessario ricordare che l’insegnamento universitario tradizionale si è
basato e si basa sulla Teogonia di Esiodo, ritenuta ortodossa rispetto
alle teogonie orfiche e a tutti gli scritti da queste derivati nel corso dei secoli.
È importante sottolineare che, fino alla scoperta del Papiro di Derveni, le
tradizioni orfiche venivano spesso discreditate, al punto che si era fatta
strada l’idea che non fossero autentiche, ma invenzioni o “costruzioni
artificiali del tardo neoplatonismo”[10]. E, anche
se questa ipotesi erronea ancora si legge, il papiro dimostra l’autenticità di
una tradizione mitica che ha origine in racconti arcaici[11].
La riabilitazione dei miti orfici comporta il
riesame filologico ed esegetico di una notevole mole di fonti accantonate e di
scritti eterogenei, che riportano leggende, allegorie, trame chimeriche e
prodigi differenti e spesso fra loro contrastanti.
Il problema, come si presenta oggi agli occhi
degli studiosi e di tutti i curiosi che riescano a gettare lo sguardo sui testi
dei documenti, delle riproduzioni, dei commentari, delle raccolte di frammenti,
delle analisi esegetiche e degli studi di interpretazione, è così
sintetizzabile: un groviglio inestricabile, costituito da fili di senso che spesso
mortificano non solo il vincolo cronologico di causalità, ma anche l’elementare
principio logico di identità e non contraddizione. Cosa fare?
Le possibilità alternative non sono molte: 1) collezionare
alcuni di questi fili – quelli meno problematici – e porli uno accanto all’altro
come versioni differenti del mito, secondo il principio adottato dagli autori
dei dizionari della mitologia classica[12]; 2)
seguire il criterio scolastico di riconoscere solo la trama del mito riportata
dai grandi poeti ancora oggetto di studio – e in questo caso vorrebbe dire
rinunciare del tutto, perché Omero non si occupa di Metis ma solo di metis;
3) farsi allievi dei maggiori esperti e studiare le loro pubblicazioni per
trovarvi un filo di Arianna nel labirinto dei materiali documentari.
Personalmente ho scelto la terza opzione, prendendo
le mosse dall’opera di Marcel Detienne
e Jean-Pierre Vernant che mi ha consentito di venire
a conoscenza di studi e autori dei quali non sospettavo nemmeno l’esistenza.
Acquisita una certa dimestichezza con metodi, concetti e criteri di studio, non
mi è stato difficile trovare spazio per l’esercizio da me preferito fin da quando
frequentavo gli ambienti dell’antichistica italiana: provare a ricostruire o
dedurre la realtà mentale e materiale dell’epoca[13].
Prima che l’elaborazione dei miti divenisse parte
della tecnica letteraria e dunque frutto artistico della creatività di un singolo
o, quantomeno, della sua abilità di scelta nel patrimonio di tradizione orale,
la produzione e la gestione delle tematiche e dei valori simbolici era parte
della quotidiana esperienza collettiva di raccordo fra l’attualità e il mondo
dell’intangibile o del passato.
Se si ha presente che la complessa genesi dei
miti si può sempre riportare alla radice antropologica della necessità di
gestire una realtà attraverso la condivisione della sua rappresentazione iperbolica
in un racconto, si comprende che la trama di tale narrazione contenga e riveli modi
del pensiero e caratteri della psicologia dell’epoca.
Proviamo a immaginare di essere al tempo in cui il
mito non era ancora stato costruito, per poter tentare di identificarne gli elementi
fondanti. Da tutto quanto ho letto è ragionevole dedurre che sulla scena del mondo,
e in particolare fra cielo e mare, l’intelligenza si era esibita mostrando
le meraviglie del suo potere attraverso una donna, che aveva profondamente
impressionato gli astanti, rendendoli prima testimoni, ossia depositari
di una memoria, e poi relatori, cioè messaggeri dei fatti accaduti e
degli effetti prodotti.
Questi due spunti reali all’origine del mito
possono difficilmente essere contestati: la civiltà greca più di ogni altra ha
attribuito all’intelligenza valore di fondamento per ogni arte, scienza e conoscenza,
e poi, che vi fosse una particolare donna alle origini del mito, è confermato
dalle varianti più antiche che conservano per protagonista la madre (Teti) o,
al massimo, la figlia di Metis (Atena), ed è anche suggestivamente corroborato in
greco dal nome comune derivato, metis, che appartiene al genere
femminile.
La novità assoluta, documentata dalla tradizione
orfica in completo contrasto con l’ortodossia di Esiodo alla quale è ispirata
la coreografica composizione dell’Olimpo che ci accompagna dagli anni della
scuola, è costituita dall’idea che l’intelligenza sia la madre di tutti gli
dei. Metis è meravigliosa e appellata anche Phànes, Splendente, che
appare e fa apparire, e Protogonos, colei che è nata per prima, perché è
la grande divinità primordiale che, uscendo dall’uovo cosmico, porta in sé il
seme di tutti gli dei, il germe di tutte le cose e porta alla luce, in quanto
prima generatrice, l’universo intero nel suo corso successivo e nella varietà
delle sue forme.
Come la mettiamo con Zeus signore assoluto di tutte
le divinità dell’Olimpo secondo Esiodo e chiamato Padre di tutti gli dei da
Omero? È evidente che il primo nucleo del mito di Metis quale origine di tutte
le creature divine deve aver preceduto i miti della teogonia esiodea o, almeno,
deve essersi sviluppato lontano dalla conoscenza della tradizione che ha avuto
più seguito nel corso della storia. Proprio il tentativo di ricostruire un filo
cronologico per queste due tradizioni in contrasto ci consente di ordinare come
tessere di un mosaico o pezzi di un puzzle alcuni elementi di quella matassa
aggrovigliata di frammenti che, altrimenti, rischia di apparire un autentico
pasticcio, senza capo né coda.
I depositari della tradizione orfica della Metis
madre primordiale, quando vengono a conoscenza della Teogonia di Esiodo,
pur professando un’adesione “religiosa” alla composizione dell’Olimpo e alle
sue gerarchie, ribadiscono una “teologia della genesi” profondamente diversa da
quella esiodea. In Esiodo, Metis è rappresentata in un ruolo subalterno alla
divinità maschile, secondo un modello sociale tipico della giovane donna
accolita o compagna del Re Padre, che esercita tutte le prerogative di
detentore di un potere assoluto. Nella trama esiodea, Zeus è emerso vincitore
da una lunga lotta contro le potenze primordiali del disordine e ha stabilito l’ordine
in un cosmo organizzato, differenziato e gerarchizzato, con sé stesso al
vertice della gerarchia.
L’impatto della tradizione orfica su quella
esiodea non deve essere stato lieve: il valore simbolico di intelligenza
attribuito alla figlia di Teti deve aver reso evidente un deficit del re degli
dei. Non solo Zeus non è nato dall’intelligenza ma, se ne ha bisogno come compagna,
evidentemente non ne possiede! Si rimedia subito: Zeus ingoia Metis e così
diventa intelligente.
Prima della scoperta del Papiro di Derveni, O.
Kern vedeva all’interno della tradizione Orfica nel personaggio di Metis e nel suo
ingoiamento da parte di Zeus una chiara derivazione dalla Teogonia di
Esiodo[14].
Ma anche gli Orfici, a loro volta, reagiscono
alla tradizione esiodea. Così Metis-Phànes, da donna meravigliosa e
madre primordiale, in una transizione astratta verso il concetto di
intelligenza, perde la sua natura femminile umana per diventare un dio androgino:
diphués. Dunque, all’ingoiamento da parte di Zeus, che sembra quasi
ribadire una supremazia maschilista legata al ruolo dei re-guerrieri, gli
Orfici reagiscono con una modulazione concettuale che sembra voler dire: non è
una questione di sesso ma di abilità mentale astratta; se voi ritenete che la
donna non possa personificare l’intelligenza, allora vi proponiamo una
personificazione bisessuale, ossia non appartenente a uno solo dei due sessi. Ecco
cosa ne deducono Detienne e Vernant: “Metis non è più, come femmina,
subordinata a Zeus; in quanto bisessuata, questa divinità si pone al di sopra
o, in ogni caso, al di là”[15].
Non mancano i tentativi di sintesi: l’inghiottimento
di Fanes-Metis da parte di Zeus avviene alla quinta generazione divina, che
segue la successione di passaggi dello scettro da Fanes-Metis a Nux (la Notte),
poi a Urano e, infine, a Crono, prima di giungere a Zeus, che dà luogo a una
seconda creazione, omologa della prima di Fanes-Metis. In tal modo, il re degli
dei può essere “inizio, metà e fine di tutte le cose”[16].
Ma, nel prosieguo, gli autori Orfici seguono una
tradizione che considera Zeus come un membro di una dinastia regnante, e ne registra
l’abdicazione del trono a favore del figlio Dioniso, rappresentante della settima
e ultima generazione degli dei sovrani. Platone si esprime così al riguardo: l’avvento
di questa generazione di dei nei poemi attribuiti ad Orfeo segna la fine del
processo teogonico, ed ora “bisogna por fine all’ordine del canto”[17]. In altri
termini: basta invenzioni sull’origine degli dei, perché nel IV secolo a.C. i
tempi sono maturi per giungere ad una sintesi culturale stabile e condivisa.
In realtà, la questione antropologica sempre
sottaciuta è che si doveva fare i conti con le culture locali di sostrato, con
tradizioni protostoriche o addirittura preistoriche, culti che alcuni
ritrovamenti archeologici facevano risalire addirittura al Neolitico. Tradizioni
non scritte, con i loro rudimentali monumenti, tramandate per millenni oralmente
da una generazione all’altra, difficili da eradicare ma a volte anche da “normalizzare”
facendole rientrare nelle mitologie scritte da Ateniesi, Spartani e autori di
altre importanti polis. Naturalmente, la questione si pone quando l’assimilazione
si rivela problematica, perché l’identificazione efficace che copre e annulla
il passato costituisce un processo culturale in sé banale, universale, diacronico
e ricorrente: divinità egizie che diventano greche, gli dei romani che si
sovrappongono a calco sull’Olimpo greco con l’aggiunta dei nuovi re
divinizzati, i Numi tutelari classici che diventano santi protettori in epoca
cristiana, e così via, per citare solo i casi più noti.
Nella creazione degli dei, prima della fase in cui
si idolatravano re, capi militari, donne e uomini dalle virtù eccezionali, vi
era stata un’epoca in cui la creazione di soggetti divini era prevalentemente opera
del “pensiero magico primitivo”[18], che
tendeva ad attribuire proprietà straordinarie ad animali, piante ed elementi di
natura. In questa epoca, perdendosi nella notte dei tempi delle culture
protostoriche, si può collocare un animale molto speciale, dotato di metis, che
deve aver preceduto la donna straordinaria nella fantasia dei naviganti primordiali,
come vedremo più avanti.
Ma ora torniamo alla bellissima Teti, al fascino
della sua intelligenza e, soprattutto, agli argomenti che chiariscono il suo
rapporto equivoco con l’identità della seppia.
Chi ci aiuta a trovare un filo che ci porti a giustificare
la scelta del mollusco?
La scoperta da parte di Lobel nel 1957 di un
papiro di argomento cosmogonico scritto da Alcmane a Sparta nel VII secolo
a.C., ben trecento anni prima dell’epoca di Platone, utilizzando modelli mitici
antichissimi e arcaici senza nulla di orfico, ha segnato un progresso di
conoscenza il cui valore è divenuto chiaro quando il prezioso documento, dopo innumerevoli
analisi filologiche e saggi interpretativi, è giunto all’attenzione di Detienne
e Vernant[19].
Alcmane pone all’origine del mondo la Nereide
Teti associata, da una parte a Poros e Tekmor, dall’altra a Skotos. Un ruolo
apparentemente paradossale per la madre di Achille nella genesi del Cosmo, ma che
si può giustificare comprendendo che l’identità della dea, come accade per
Metis, nel corso di secoli e millenni, si è andata sovrapponendo a quella di
entità divinizzate in epoche remote. Sgombriamo subito il campo da un dubbio
adombrato per la prima volta da Jouan nel 1966, ossia che le metamorfosi che
portano Teti a diventare seppia per sfuggire a Peleo siano un’invenzione
poetica di Euripide: il grande tragico di Salamina si era solo limitato a
riportare una storia popolare considerata molto antica già nel V secolo a.C.,
come attestano numerose fonti, nessuna delle quali cita Euripide[20].
La tradizione del mutamento in cefalopodo sembra
risalire ai Canti Ciprii ed è stato ricostruito che, mentre per parte
sua Teti aveva assunto le virtù di Proteo con la sua dinamica del ciclo di
metamorfosi, d’altra parte, Peleo era stato supportato da Chirone nella fiducia
perseverante di seguire i cambiamenti senza perdere la speranza di poter ottenere
la fanciulla sebbene mutata[21]. Chirone
consiglia Peleo di ricorrere a sua volta a un artificio di metis: identificare la
seppia-Teti e fingere di non riconoscerla, per poterla di sorpresa afferrare e
serrare tra le braccia, possedendola proprio mentre ha quella forma, che la
rende più vulnerabile. Peleo riesce nell’impresa, ma in realtà non è una sua
vittoria, perché il promontorio di Iolco, dove Teti si trasforma in seppia dandogli
il nome di Capo Sepia o Capo della Seppia, apparteneva a lei e alle sue
Nereidi, e dunque la dea-ninfa poteva aver realizzato i suoi artifici solo per
mettere alla prova Peleo e verificare se lui avesse perseverato nel desiderarla
anche senza un corpo da stupenda fanciulla.
Erodoto attesta che la vicenda era considerata
dalle popolazioni antiche del Mediterraneo al pari di un fatto storico: “Dopo
la tempesta che ha distrutto la loro flotta al Capo Sepia, i Persiani offrono sacrifici
a Teti e alle Nereidi: «Essi sacrificavano a Teti perché avevano appreso dagli
Ioni che in quel paese lei era stata rapita da Peleo, e che tutto il
promontorio Sepia apparteneva a lei e alle altre Nereidi»”[22].
Ateneo ci dice che al Capo Sepia il mare è ricco
di seppie e, secondo verifiche recenti, i molluschi sono ancora abbondanti in
quel luogo, a quasi tre millenni di distanza. Se in tempi remoti era nato il culto
per un’arcaica divinità del mare proprio in quell’area, si può supporre che l’abbondanza
di seppie, ritenute segno della sua presenza, sia stata uno spunto per la
creazione della trama. Ma la cosa potrebbe non essere così semplice e banale.
Infatti, anche se la seppia è considerata dai Greci,
al pari del polpo, un animale dotato di metis, ciò che non convince è la trasformazione
della donna nel piccolo mollusco e Peleo che la “serra tra le braccia” per
possederla. Il sospetto è che la parola greca per “seppia” possa essere stata
impiegata in senso figurato, traslato, metaforico o simbolico.
Consideriamo, allora, questa possibilità. La
metonimia del colore bianco della seppia era associata al femminile e alla donna,
sia per indicarne l’aspetto negativo della debolezza sia per esaltarne l’aspetto
positivo della bellezza. Chi non ricorda il verso dell’Odissea riferito a
Penelope, in cui si dice che la dea l’aveva fatta più bella, più bianca dell’avorio
tagliato?
Inizio
seconda parte.
Scoprire il senso metaforico della metamorfosi in seppia. Il bianco della seppia può essere riferito tanto
alla tinta della carnagione quanto al temperamento della donna[23]. Secondo Eustazio, il nero è il maschio, il forte;
il bianco la femmina, il debole, o l’effeminato: leukoi
hoi deiloi, ossia i
bianchi sono deboli. L’origine di questa associazione costante nel mondo
classico, e presente anche negli Egizi che raffiguravano in una tinta scura del
rosso il corpo maschile e in tinte chiare del bianco quello femminile, si
comprende se si considera la vita all’aperto con costante esposizione al sole
del corpo degli uomini per attività sociali, militari o ginniche – gymnos, atleta, vuol dire nudo – che esaltava
la maggiore tendenza, anche per la costituzione endocrinologica maschile, alla
pigmentazione della cute. Per contro, le donne greche trascorrevano la maggior
parte della giornata in casa e tendevano a proteggere il corpo dal sole intenso.
In Plutarco troviamo una connotazione totalmente positiva del biancore non
inteso come pallore, ma intensità luminosa del chiaro, e della mollezza (tà malakia), intesa
come morbida consistenza e non come flaccidità, della seppia e dei molluschi in
genere, nell’accostamento alla desiderabile delicatezza del corpo femminile (Plutarco,
Mor. 916 a-c).
Ma un
supporto decisivo all’ipotesi che “seppia” non si debba intendere alla lettera
nel mito di Teti ci viene da Aristofane che, nella commedia Ecclesiazuse,
ovvero Le Donne al Parlamento (392 a.C.), rivela il valore di luogo
comune dell’associazione della donna alla seppia e al suo biancore, nella resa
teatrale di un fatto di cronaca rappresentato mediante il gustoso episodio di un
travestimento di donne ateniesi, tanto improbabile quanto perfettamente
riuscito nel suo scopo. In breve, un gruppo di donne ritiene che gli uomini stiano
mandando in rovina la città di Atene e vuol fare in modo che tutte le attività
politiche ed economiche passino sotto il controllo di esponenti del sesso
femminile, capaci di amministrare in modo più saggio, oculato e democratico. Ma
il Parlamento è composto solo da uomini che non voterebbero mai a favore di un
provvedimento che cederebbe tutto il potere alle donne, allora le nostre eroine
decidono di entrare in incognito nell’assemblea della polis, presentare il
provvedimento e convincere quanti più uomini possibile a votarlo.
A questo
scopo, le Ateniesi si camuffano da uomini, facendone una tanto involontaria
quanto divertente parodia, imitando i caratteri distintivi dello stile, della
postura e della voce degli esemplari a loro giudizio più emblematici del genere
maschile; si appiccicano con cura delle barbe finte sulla candida pelle del viso
e, nonostante abbiano cercato di ovviare la differenza del tono cutaneo, quando
sono tutte pronte per fare le prove del discorso, una di loro esclama: “Si può
vedere nulla di più buffo? … Pare di vedere tante seppie arrostite con la barba!”[24].
Taillardat così commentava: “Le donne che rimangono sempre a casa hanno la pelle
bianca come le seppie e, sebbene esse si siano abbronzate al sole, la loro
abbronzatura è superficiale, e rassomigliano più a delle seppie dorate in
padella che a degli uomini veramente scuri”[25].
Dunque, l’accostamento
fra donna e seppia era comune e se si cerca in Aristotele, Plutarco, Ateneo e
Oppiano si trovano esempi a sufficienza per non dubitare che il mollusco fosse
anche una figura dell’astuzia al femminile, così come il polpo lo era per quella
maschile. La seppia è la bianca che nasconde il nero, l’inchiostro
che rende oscure e impenetrabili le acque, creando un’aporia per gli altri ma
costituendo per lei una soluzione, un póros, nel duplice significato di stratagemma
e via d’uscita. Il bianco è associato dai Greci alla luce, il nero alle
tenebre; dunque, si spiega il posto occupato nella teogonia di Alcmane[26] da Teti che, in quanto bianca come donna/seppia
è accostata alla luminosità di Poros e Tekmor e, in quanto dotata di metis/inchiostro,
è avvicinata al tenebroso Skotos.
Tuttavia,
questa pur plausibile ragione dell’identificazione della Nereide con il cefalopodo,
non convince del tutto in rapporto a un aspetto cruciale della trama del mito:
Teti va incontro al ciclo di metamorfosi e, quando diventa seppia, viene
posseduta da Peleo. In altri termini, il racconto non indica una costante e
costitutiva appartenenza di Teti, in quanto donna, alla categoria simbolica
delle “creature bianche”, ma una potenzialità espressa come cambiamento
in una determinata circostanza. Un mutamento che avrebbe dovuto allontanare
Peleo, e che sicuramente lo avrebbe indotto a desistere se questi non fosse
stato consigliato da Chirone. E allora?
Analizzando
i valori semantici della parola greca σηπία
(sepia) si scopre che esiste un’antichissima
associazione fra i molluschi in qualità di cibo di mare e un effetto
afrodisiaco. Ateneo, citando Diocle, afferma che i molluschi invogliano e
motivano al piacere, inducendo nelle persone desideri sessuali; ma in questo
caso si tratta dell’effetto prodotto come alimento, non dell’identità di seppia.
Se l’uso del termine è figurato o metaforico, quale significato poteva aver
assunto in rapporto alle funzioni svolte dalle donne in seno alla società delle
polis?
Indagando
sui ruoli sociali della donna nel mondo greco, ci si imbatte nella concezione pubblica
della prostituzione che, al contrario di quanto accadeva nel mondo ebraico in
cui era severamente punita, aveva un riconoscimento legale quale attività lavorativa
soggetta a una particolare tassazione.
Ad Atene,
come nella maggior parte delle polis, il meretricio ed ogni sorta di favore sessuale
concesso a pagamento erano disprezzati e condannati dalle donne di casta
elevata, che praticavano appunto la castità, similmente alle sacerdotesse che potevano
consacrarsi a vita, ma presso i ceti popolari, fino alle classi medie,
esistevano varie categorie di meretrici. Al livello più basso erano le pornai, molte delle quali erano straniere di origine
orientale che, come altre ragazze povere della città, vivevano nei postriboli
contrassegnati all’esterno dalla vistosa immagine fallica del dio Priapo, che
fungeva da insegna pubblicitaria. Tali squallide dimore erano localizzate in
Atene nella zona del Pireo e vi si accedeva mediante un obolo che dava diritto ad
esaminare le ragazze seminude e intavolare con loro la contrattazione sul pagamento.
Ben diversa era l’immagine sociale delle auletridi, o suonatrici di
flauto, che intrattenevano i clienti a pagamento spesso in spettacoli per soli
uomini, con musica, danze artistiche o lascive, concedendosi per cifre più
elevate delle pornai e solo a chi era di loro
gradimento. Le auletridi più anziane creavano scuole per le più giovani
in cui insegnavano, oltre alla cosmetica, alla musica e alla danza, l’arte di far
innamorare gli uomini con tecniche di seduzione e schermaglie amorose.
Accantonando
altre categorie, consideriamo quella più elevata e culturalmente rilevante
perché includeva – come ha tramandato la storia – Aspasia, Taide, Teoride, Archippe, Antifane, Archenassa, Diotima, Clessidra, Targhelia e
Leonzia, per citare solo le più note, ossia le hetairai
o etere, che letteralmente vuol dire “compagne”[27].
La maggior
parte delle etere proveniva da famiglie di classi elevate che avevano dato loro
educazione raffinata e istruzione in filosofia, letteratura, musica e vari
altri campi del sapere, cosa che le facilitava nel diventare compagne e
talvolta collaboratrici di filosofi e poeti. Esiste un’antologia ateniese di
epigrammi delle etere[28].
In molti casi,
diventavano etere le ragazze che non sopportavano i rigidi costumi e i doveri
delle padrone di casa greche che, pur impartendo ordini ad ancelle e schiave, erano
personalmente impegnate in lavori quotidiani che andavano dalla tessitura alla
realizzazione di oggetti artigianali, esercitando le abilità con una cura propria
dello status di areté, che includeva nelle virtù anche l’eccellere in questi
compiti. Le etere si imbiondivano i capelli per incarnare un ideale di bellezza
celebrato a quel tempo, perché la loro fortuna dipendeva dalle doti estetiche,
considerate un valore assoluto dai Greci, e non dall’intelligenza, come alcune
di esse cercavano di far intendere. D’altra parte, una ragazza con risorse di
cognizione e saggezza non aveva bisogno di prostituirsi per trovare un posto nella
vita.
Anche se
famosi filosofi ebbero etere per compagne, un cittadino ateniese, sposato e
preoccupato di conservare una buona reputazione, le evitava. Inoltre, queste donne,
che spesso si concedevano per settimane, mesi o anni allo stesso uomo, non
godevano della maggior parte dei diritti civili ed erano bandite da tutti i
templi delle città, eccetto quello della loro protettrice Afrodite Pandemia[29].
Un
particolare da non trascurare è che la legge obbligava le etere, proprio
in quanto potenzialmente indistinguibili dalle caste vergini e dalle irreprensibili
signore della città, ad indossare abiti fiorati o almeno contrassegnati da qualche
macchia cromatica che ricordasse un fiore. Frine, divenuta celebre per essersi
offerta di pagare la ricostruzione delle mura di Tebe purché vi incidessero il
suo nome, era solita presentarsi in pubblico coperta da veli contrassegnati da
qualche macchia floreale, così da attrarre lo sguardo e creare aspettative per
il gioco di disvelamento, che compiva alle Eleusine e Posidonie, feste durante
le quali lasciava cadere i veli davanti a folle ammirate e, sciolte le lunghe
chiome, si immergeva nuda come Venere nelle acque[30].
Molte
etere assumevano il nome di Sepia, e fra queste vi erano sicuramente Archippe e Antifane[31], e si desume che il termine fosse diventato nel
linguaggio comune sinonimo di etera. Sembra che il vocabolo designante il
mollusco fosse impiegato per riferirsi all’essenza fisica ed erotica della
femminilità, in contrapposizione con quella psichica, caratterizzata da sensibilità,
saggezza, acume e virtù domestiche. Linton Humphrey è
stato fra i primi a rilevare che sepia nel
linguaggio gergale antico indicava i genitali esterni della donna, e ancora
oggi la parola equivalente del greco moderno, soupiá,
indica la vulva[32].
Dunque, abbiamo
elementi sufficienti per risalire agli eventi reali all’origine del mito e interpretare
le metamorfosi di Teti come travestimenti[33]: mutata in seppia, ossia in etera bionda con una
tunica fiorata identica a quella delle colleghe di ruolo, e dunque mimetizzata come
una seppia sul fondo del mare, poteva sfuggire a Peleo e, anche se
riconosciuta, poteva puntare sul fatto che questi, credendo che fosse divenuta
realmente una prostituta, non si sarebbe mai abbassato al rango di un suo
cliente. E qui entra in gioco Chirone il quale, garantendo che Teti non era diventata
una vera etera ma si era solo travestita, supporta Peleo nel fingersi un ignaro
aspirante alla compagnia della Nereide e nel giungere, infine, a possedere la
seppia divina[34].
Da quell’amplesso
si vuole sia nato Achille, che certo non difettava in metis e, per un popolo
che credeva nell’ereditarietà dell’intelligenza salvo eccezionali interventi
divini, non si poteva immaginare un concepimento migliore[35]. Ma, rimanendo a Teti e al suo essere la madre
di Metis, dalla quale invece discende se si accetta la tesi di una Metis quale
madre primordiale, non è difficile rendersi conto che entrambe le dee
personificano lo stesso concetto.
L’identificazione di Metis con Teti è più di una semplice ipotesi, e
spiegherebbe perché Omero, pur trattando della metis diffusamente e in
ogni suo aspetto, non cita mai Metis, ma solo Teti, l’altra dea-Nereide che noi
consideriamo sua madre solo perché seguiamo la teogonia più consolidata nella tradizione
storico-letteraria.
Inizio terza parte
Aìthuia,
la prodigiosa cornacchia di mare, è identificata con Atena per la metis. I marinai primordiali in
epoca arcaica avevano imparato a seguire l’Aìthuia o koróne
thalássios al fine di procedere speditamente nelle
acque basse senza rischiare di schiantarsi contro gli scogli, per evitare
vortici, correnti improvvise e rischi di ogni sorta; quando un’Aìthuia sorvolava
la nave in volo calmo e planato i marinai sapevano che non vi erano pericoli
nei paraggi e nell’immediato, come sapevano che il suo improvviso tuffarsi in
acqua indicava un pericolo imminente e imponeva prudenza nella navigazione, suggerendo
di fare attenzione agli elementi per cercare di decifrare i segni di un incombente
problema.
Quando le condizioni del mare erano tali da costituire un’aporia per il
nocchiero, incapace di trovare una soluzione o terrorizzato da una tempesta ingovernabile,
la presenza di un’Aìthuia, con i suoi movimenti e le sue condotte, poteva fornire
indicazioni su come agire e affrontare la difficoltà. Verosimilmente, il comportamento
dell’uccello acquatico, regolato dai suoi meccanismi neurobiologici di orientamento
e di autoconservazione, che fungono da bussola e da promotori della fuga sulla
terraferma in caso di variazioni barometriche che annunciano tempesta, può aver
avviato lo sviluppo della tradizione di una cornacchia di mare pilota e maestra
dei timonieri, attraverso l’enfasi celebrativa dei marinai scampati.
L’Aìthuia, ossia l’uccello che affronta l’imprevedibilità del mare e la
paura dell’ignoto, come si dice nel saggio del nostro presidente al quale mi rifaccio
ampiamente in questo paragrafo[36], aveva colpito la fantasia in
epoche antichissime, al punto da suggerire un mito arcaico secondo cui questi
uccelli acquatici, capaci di indicare la via per sfuggire alle temute Rocce
Erranti o presumibili rocce emergenti per fenomeni vulcanici, erano stati uomini
esperti navigatori in una vita precedente; in particolare, in loro vi sarebbe
stata l’anima dei progenitori ancestrali che avevano inventato la “caccia in
mare” ed erano poi stati trasformati in uccelli[37].
Ma che uccello era l’Aìthuia? Con quale specie possiamo identificarla?
Nella Grecia arcaica non si adottavano criteri di classificazione naturalistica
paragonabili a quelli moderni e, per distinguere i tipi aviari, si seguivano
denominazioni di costume locale, spesso originate da sintesi tra caratteri
morfologici e comportamento. E gli autori, anche nelle epoche successive alle
classificazioni di Aristotele, con lo stesso termine potevano tanto denotare un
esemplare di una specifica specie aviaria, quanto connotare la generica appartenenza
alla categoria degli uccelli acquatici. Per orientarsi, i grecisti hanno
tradizionalmente fatto riferimento al “Glossario degli Uccelli Greci” di D’Arcy W. Thompson[38] che distingue láros, dúptes, eróidios e aíthuia; tuttavia,
quando tali nomi ricorrono nei testi, raramente si comprende con precisione di
quale uccello si tratti e spesso per l’aíthuia
koróne thalássios rimane
il dubbio fra cormorano, folaga, chiurlo, svasso, puffino, gabbiano argentato e
gabbiano tuffatore. Con ogni probabilità, come sarà chiaro più avanti, Aìthuia
era divenuto nel tempo un nome simbolico indicante ogni uccello acquatico
dotato della metis divina che ne aveva giustificato l’identificazione
con Atena.
Per comprendere meglio, mettiamoci idealmente in viaggio e raggiungiamo
dall’azzurro mare dell’Attica l’antichissima rivale di Atene, Megara, patria del matematico Euclide e del poeta di elegie
Teognide, nonché dei primi commediografi e di numerosi
attori di mimiche e farse popolari[39]. Da sempre Megara era ritenuta una terra in cui l’invenzione, la finzione
e la creazione erano nello stile di vita di tutti i cittadini che, nel bene e nel
male, erano considerati υποκριτής
(attori o ipocriti)[40]. Quale terra migliore per la
nascita di miti?
L’idea di avvicinarci dal mare è suggerita dalle prime pagine della Periegesi
della Grecia di Pausania[41], in cui si legge che avvicinandosi
alla costa di Megara si può vedere un promontorio (skópelon) che si staglia contro il cielo dominando
il mare: la Punta di Atena Aìthuia.
Proprio in quel luogo si trova la tomba del re di Atene Pandione. L’apparente incongruenza della sepoltura di un
monarca ateniese nel territorio di una polis antagonista è spiegata da un mito
che ha per protagonista l’Aìthuia. I figli di Metione,
il più noto dei quali è Dedalo, padre di Icaro, con un’azione militare deposero
dal trono Pandione, ma Atena, prendendo le sembianze
di un’Aìthuia, accorse in suo aiuto: nascose il deposto re di Atene sotto le
sue ali e lo portò in volo fino a Megara, dove
avrebbe vissuto un esilio dorato senza correre altri rischi[42].
L’Aìthuia emerge dalla notte dei tempi megaresi per suggerire un modo in
cui la divinità vigente (Atena) avrebbe potuto operare un salvataggio
provvidenziale da celebrare e tramandare ai posteri quale fatto prodigioso, distogliendo
l’attenzione dalla cronaca di fatti da non divulgare e contribuendo ad
occultare i mezzi umani realmente impiegati per salvare quel re di Atene che
gli storici contemporanei chiamano Pandione II, per
distinguerlo da un predecessore omonimo. Anche se è probabile un finto
rapimento da parte di sodali della polis vicina, non sapremo mai cosa è
realmente accaduto e come sia stato possibile: le ipotesi vanno dalla richiesta
di protezione in cambio di segreti militari a “doni da re” per corrompere le
autorità di Megara.
Atena Aìthuia costituisce un ottimo modello per introdurre un criterio
che aiuta a distinguere fra miti di origine arcaica e miti di origine antica: i
primi contengono delle costruzioni irrealistiche e fiabesche alle quali non
crederebbe neanche un bambino, come appunto un uccello che nasconde un uomo e
lo porta in volo per una quarantina di chilometri; mentre i secondi, ammesso
che si creda nell’esistenza degli dei, conservano una discreta plausibilità[43].
La maggiore difficoltà nell’orientarsi per riconoscere l’epoca di appartenenza
di una trama consiste nel fatto che non vi è stato un cambiamento netto, caratterizzato
dall’abbandono delle vecchie storie per le nuove, ma vi sono state
sovrapposizioni, modifiche parziali, rimaneggiamenti, commistioni e semplice
affiancamento di nuove e vecchie trame. Un campione impareggiabile di questo
atteggiamento culturale è senz’altro Omero. L’autore dell’Odissea propone con
la stessa solennità poetica e narrativa con la quale fa riferimento a fatti
storici, tanto gli aiuti e i supporti di Atena a tecniche e artifici di metis
impiegati da Ulisse, quanto leggende imperniate su fantasie chimeriche apparentemente
prive di rapporto con la realtà.
l’Aìthuia come creatura divina appartiene all’epoca primitiva in cui si
attribuivano poteri magici agli uccelli e li si adorava come entità superiori.
Quando nascevano le teorie teogoniche sulla base dell’idolatria di esseri umani,
gli animali potevano essere soppiantati o, se il loro culto era sostenuto da
forti tradizioni di sostrato, potevano essere identificati con i nuovi dei. È esemplare
quanto era accaduto in Egitto, dove il falco era stato identificato con Horus,
ma anche con Ra e Mentu, lo
struzzo con Kebechet, il nibbio con Nefti o Iside, l’ibis con Toth e
l’anatra con Geb.
L’identificazione dell’Aìthuia con Atena rende evidente la forzatura nel
volere assimilare due mondi diversi in cui gli autori della trama dei miti
partono da differenti visioni della realtà. Stride un’Atena che si trasforma in
uccello che trasporta un re come un moderno volo di linea con l’Atena che
protegge Ulisse, il re di Itaca, in un rapporto che, da un canto assomiglia a
quello che esisteva in epoca moderna fra la regina Elisabetta I e Sir Francis Drake,
capo dei corsari, dall’altro sembra a volte, nel testo omerico, il rapporto fra
due intimi amici e sodali nelle avventure.
Questo rapporto umanissimo fra Odisseo e la dea era di pubblico dominio
nel mondo antico e considerato alla stregua della protezione che i potenti
concedono ai propri beniamini. Un esempio lo abbiamo nei giochi commemorativi
in onore di Patroclo[44], in cui Ulisse deve
affrontare nella corsa Aiace, una sorta di Usain Bolt dell’epoca, ossia un
velocista imbattibile. L’innamorato della principessa spartana Penelope doveva
vincere con ogni mezzo la gara perché la vittoria gli avrebbe garantito la mano
dell’amata, sicché invoca così la sua dea: “Ascoltami, potente, e vieni nella
tua clemenza, ad aiutare i miei piedi”[45]. La risposta non si fa
attendere: Ulisse sente di avere più energie ma, soprattutto, nella corsa una
parte della pista era stata sporcata dallo sterco dei buoi transitati come animali
da sacrificare nella cerimonia inaugurale in onore di Patroclo, e Atena fa in
modo che sul guano finisca Aiace, così da scivolare e cadere prima dell’arrivo.
Un artificio di metis che fa pensare all’astuzia di Antiloco per vincere la
corsa dei carri: una furbizia umana non certo un prodigio magico, che tutti i
presenti attribuiscono ad Atena[46].
Questo passo è molto efficace nella descrizione del rapporto fra Odisseo
e la dea: “Ulisse e Atena si intendono come ladroni. È la dea che si compiace
di ricordarglielo, nel momento in cui, senza saperlo, Ulisse approda alle
spiagge di Itaca. Atena, che vuol mettere alla prova la metis del suo protetto,
assume le sembianze di un adolescente e gli rivela il nome del paese dove si è
appena risvegliato. Subito, senza smentirsi, Ulisse inventa qualche bella
menzogna: «Mai mancavano nel suo spirito le astuzie». Atena l’ascolta
sorridendo: «Quale furbo, quale scaltro, anche se fosse un dio, potrebbe
superarti in astuzie di ogni genere! Torni in patria e non pensi altro che a racconti
bugiardi, alle menzogne che ti sono care fin dall’infanzia… Ma non parliamone
più! Entrambi ben conosciamo le astuzie: di tutti i mortali tu sei il migliore
in consigli e discorsi, io fra tutti gli dei sono famosa per metis e accortezza»”[47].
Se l’Atena di Ulisse è una donna reale e potente, come può essere una
principessa ateniese, padrona della politica, pratica di giochi ginnici ed
esperta di navigazione, trova facile spiegazione il racconto del ruolo fondamentale
che svolge nel momento più importante della vita del figlio del suo amico e
protetto. Atena, infatti, si occupa di tutta l’organizzazione del viaggio di
Telemaco, sceglie personalmente l’imbarcazione, ne cura il varo all’entrata del
porto e, al momento della partenza, siede a poppa, occupando il posto del
timoniere; infine, completa l’opera facendo alzare un vento favorevole alla
navigazione[48].
La transizione dalle divinità zoomorfe all’Olimpo dell’età classica deve
essere durata molti secoli e, considerata l’arcaicità dell’Aìthuia, è ragionevole
supporre l’esistenza di divinità di epoca intermedia, collegate alla metis
necessaria ad affrontare la vita in mare e i pericoli della navigazione.
E, infatti, troviamo un ottimo esempio nella dea bianca del mare, Ino Leucotea, la cui antichissima tradizione era tanto diversa
da quella di Poseidone, da costituirla come antagonista per eccellenza. Il suo
ruolo, svolto attraverso la metamorfosi aviaria, si apprezza bene nell’episodio
dell’Odissea in cui Ulisse vede già profilarsi all’orizzonte la terra dei Feaci,
quando viene colpito dalla terribile collera di Poseidone, che scatena una
tempesta terrorizzante. I venti soffiano all’impazzata, onde gigantesche si
sollevano e si scontrano in tutto il mare, mentre con la notte cala la nebbia
che contribuisce a confondere l’acqua che diluvia dal cielo con i flutti marini
scagliati in alto con violenza inaudita: Odisseo sembra già spacciato. Ma, miracolosa
e provvidenziale, dalla schiuma bianca di un’onda emerge un’Aìthuia, quale luce
brillante nelle tenebre della tempesta, che porta la vela della salvezza che
consentirà a Ulisse di salvarsi e raggiungere la terraferma. Omero ci dice che
quell’Aìthuia non era altri che Leucotea, celebrata
per il valore talismanico dei suoi doni, evidente nella vela salvifica donata
all’eroe greco. L’episodio è ricollegato alla cerimonia degli iniziati di
Samotracia che venivano posti su un trono, coronati d’olivo e, in ricordo della
vela purpurea donata da Leucotea a Ulisse, fasciati
con una benda porpora che talvolta copriva la fronte, e che dopo la cerimonia
avrebbero dovuto portare come talismano per scongiurare le insidie del pelago[49]. Omero, che appare come un
geloso custode di tutte le tradizioni, non perde l’occasione per onorare quella
di una divinità che deve aver preceduto l’Atena del mare.
Le due interpretazioni più antiche, sul ruolo dell’Aìthuia e sulla sua
identificazione con le due dee del mare, forniscono interessanti tracce per
desumere altri aspetti dell’affascinante rapporto fra la spiritualità magica
arcaica e la cultura classica degli dei olimpici.
La prima interpretazione è considerata dagli studiosi più autorevoli un’esegesi
di Leucotea Aìthuia[50] e, sostanzialmente, afferma
che l’Aìthuia è una “portatrice di luce”, ossia phosphóros,
secondo una tradizione che la accosta all’astro che i marinai vedevano brillare
in cielo al primo chiarore, dopo le tenebre della notte. Così come attribuivano
alla Stella del Mattino la funzione di portare la luce del giorno,
riconoscevano alla prodigiosa cornacchia di mare il ruolo di illuminare le
tenebre, sia materialmente sia metaforicamente.
La seconda interpretazione tende a spiegare il perché dell’identificazione
dell’Aìthuia con Atena: “Come quell’uccello, essa ha insegnato agli uomini a
navigare sulle imbarcazioni, attraversando il mare da un capo all’altro”[51].
Le due interpretazioni, prese insieme, ci aiutano a ricostruire l’evoluzione
da un’epoca in cui l’adorazione degli astri comportava un’attribuzione
totalmente arbitraria e fantasiosa di poteri ai corpi celesti in rapporto alle
vicende umane, all’epoca in cui si riconosce il ruolo di un’intelligenza (metis)
di un uccello o di una donna.
Un episodio mitico emozionante, narrato con l’intensità immaginifica di
una sceneggiatura cinematografica e sicuramente collegato a un fatto realmente
accaduto, ci informa allo stesso tempo sull’impiego di uccelli acquatici nelle
tecniche di navigazione e sul rapporto fra l’Aìthuia e Atena. Si tratta di una
vicenda dell’epopea di Giasone e gli Argonauti, della quale si hanno due versioni,
quella delle Argonautiche attribuite a Orfeo, e quella di Apollonio
Rodio. Un solo fatto di realtà è certo: la nave degli Argonauti riesce a
transitare attraverso il pericolosissimo tratto di mare delle Rocce Erranti. L’impresa,
straordinaria e fortunosa, deve avere stimolato la creatività celebrativa. Ma,
consideriamo le due versioni del mito.
I racconti sono costruiti a partire da un fenomeno naturale difficile da
interpretare perché già all’epoca conosciuto attraverso la deformazione
immaginifica dei naviganti che lo avevano visto: delle masse rocciose
gigantesche, come degli enormi faraglioni, si spostano sul pelo dell’acqua,
probabilmente quali estremità superiori di terre emergenti per fenomeni
vulcanici. Il colore è sui generis, perciò sono detti Rocce Cianee,
e, anche se gli spostamenti sembrano casuali e passivi, come suggerisce il nome
di Rocce Erranti, si narra di due pareti rocciose che, da quinte dello spazio
che si apre al cospetto dei marinai, corrono l’una contro l’altra come due
porte scorrevoli che si possono chiudere a ghigliottina sulla malcapitata imbarcazione
che tenti di attraversarle.
Nel racconto delle Argonautiche orfiche[52], un uccello acquatico simile
all’Aìthuia, l’eróidios[53], mentre la nave solca sicura
il tratto di mare che la separa dal rischio fatale, va ad appollaiarsi sull’albero
maestro. Inviato da Atena, il pennuto sa bene cosa fare: alla giusta distanza spicca
il volo e comincia a roteare per esplorare gli spazi e i movimenti, e sembra quasi
volersi rendere imprevedibile nella direzione all’intelligenza che muove le
Rocce Cianee. Vede che il movimento è tutt’altro che
erratico, e consiste invece in un’alternanza di separazione e congiungimento; allora,
calcola il tempo necessario all’attraversamento, punta lo spazio appena aperto
dalla separazione e si scaglia fiondandosi alla massima velocità secondo la
direzione esatta per evitare ogni impatto. La vertiginosa chiusura delle pareti
rocciose durante l’attraversamento si compie un attimo prima che l’uccello
abbia superato totalmente il varco, così che la punta della coda rimane tagliata;
ma il volatile simile all’Aìthuia è già in rotta per il Ponto Eusino, indicando
agli Argonauti il modo e la via. Gli eroici naviganti seguono l’esempio e
riescono a sfuggire per un pelo alla stretta delle Rocce Cianee,
e anche loro, come l’uccello ci aveva rimesso le penne dell’estremità della
coda, perdono alcuni ornamenti della poppa della nave.
La folaga, airone o cornacchia di mare che fosse, era stata prima presagio
della protezione della dea e poi metis espressa come abilità di affrontare e
risolvere i problemi di navigazione, come in una prestazione speciale di una
funzione normalmente svolta a quell’epoca. Infatti, i naviganti antichi prima
che fosse inventata la bussola sfruttavano la capacità degli uccelli di orientarsi
verso i punti cardinali per la migrazione[54], così come in assenza di
barometro, seguivano la loro abilità naturale nel riconoscere i cambiamenti meteorologici.
Consideriamo ora lo stesso episodio nella versione di Apollonio Rodio[55].
In questo caso la trama si sviluppa inizialmente con un maggiore
realismo, quasi da leggenda, perché l’intervento di Atena si manifesta
attraverso l’invio agli Argonauti di Tifi, un pilota dalle eccezionali abilità
di navigazione, la cui perizia e le cui virtù tecniche lo avevano reso celebre
in quegli anni. Ma, nell’appressarsi della nave alle Rocce Erranti che si
congiungono e si riaprono minacciosamente, ciò che accade sembra svilupparsi
nella dimensione di un sogno[56]: Atena assume dimensioni gigantesche
e afferra e solleva con le mani la nave nel momento del massimo rischio e,
mentre con la mano sinistra tiene a bada la parete rocciosa incombente, con la
destra spinge a grande velocità l’imbarcazione attraverso i flutti dello
stretto passaggio temporaneo. In altre parole, impiega un superpotere per fare
ciò che neanche il più grande dei nocchieri avrebbe potuto tentare. Apollonio,
anziché centrare l’attenzione sulla metis dell’uccello, sembra voler
enfatizzare l’aspetto di impresa impossibile ai mortali per quell’evento,
rappresentando l’intervento della dea in modo del tutto fiabesco.
I miti degli Argonauti testimoniano un tempo in cui Atena ha ormai
coperto nella cultura e nell’immaginario collettivo il campo dell’intelligenza
pratica e del valore simbolico attribuiti in epoca arcaica esclusivamente all’Aìthuia,
ma la dea nell’ambito strettamente marinaro non è solo guida dei nocchieri e
modello di comportamento per i naviganti, ma è anche ispiratrice e patrona dei
costruttori delle navi. Le due attività sono ricondotte allo stesso tipo di
intelligenza[57].
Inizio quarta parte
La
metis non è ugualmente distribuita fra gli dei dell’Olimpo e Metis rimane unica. La metis è una risorsa
presente presso i mortali e impiegata per le esigenze più diverse, e se la sua
efficacia è celebrata nelle attività della navigazione, nei giochi, nelle arti
e nella guerra, il suo impiego per la seduzione e negli intrighi amorosi non è
meno frequente; basti pensare alla maga Circe e alla frase che rivolge a
Ulisse: “Vieni sul mio letto, impariamo la fiducia”. In queste arti le persone
comuni, così come gli eroi, sono emuli degli dei, che si costituiscono come
cristallizzazione simbolica di tipi umani idealizzati e, di fatto,
rappresentano i modelli culturali prevalenti.
Non meraviglia che Afrodite, la dea della bellezza e delle arti d’amore,
sia considerata una potenza di metis, in quanto, maestra di astuzia e di
inganno, è temuta e rispettata per la sua intelligenza sempre attiva e la sua
abilità nel creare trappole e tendere tranelli per soddisfare il suo smisurato
desiderio di sedurre, avvincere, soggiogare e asservire dei e uomini. Come
nella caccia e nella pesca, lei getta delle reti per la cattura delle prede,
che immancabilmente riduce in suo potere all’amechanía, ossia all’incapacità
di agire. Gli avvinti dai lacci della sua seduzione sono come inebetiti dalla
forza del suo fascino e pronti a fare qualunque cosa pur di conservare il suo
amore. È stato così per Efesto, il dio Vulcano dei Romani, ossia il più brutto
degli dei che, pur dotato di metis ed essendo a sua volta eccellente nel creare
trappole, è rimasto soggiogato dalla dea definita “dorata” per il suo splendore,
e ha accolto come la più grande e insperata delle fortune la possibilità di
divenire suo sposo.
Ma Afrodite mette la metis al servizio delle sue debolezze, come fanno i
mortali, rischiando di perderne l’uso. Appare invincibile quando respinge
Ermes, celebrato con l’iperbole secondo cui la sera stessa del giorno in cui è
nato ha rubato con l’astuzia la mandria di buoi del fratello Apollo, ma, quando
lei stessa è avvinta dalla passione, perde la vigilanza costante, quel
movimento aíolos dell’intelletto, che ispira prudenza e previene la buggeratura. Afrodite
perde la testa per Ares, lo seduce e tradisce il marito Efesto[58].
Ciò che accade lo si tramandava con una canzone che l’aedo cieco Demodoco,
nell’Odissea, canta in onore di Ulisse alla corte dei Feaci: Efesto è beffato
da Afrodite che lo tradisce con Ares; per vendicarsi dei due amanti, Efesto li
sottopone alla costrizione dei suoi vincoli, imprigionandoli con le sue catene[59].
La storia è interessante in rapporto alla metis e, sia pure in sintesi,
merita di essere riportata.
Avvertito dal Sole, suo amico, ossia saputo quanto era di pubblico dominio
– “sotto il sole” si diceva – che la sua sposa lo tradisce nel loro letto
coniugale con Ares, Efesto si reca nella sua oscura fucina a forgiare catene impossibili
da spezzare e elementi e strutture per una trappola di raffinata concezione. Alla
base del talamo àncora le speciali catene, occultandole alla vista, e issa il
marchingegno al di sopra del letto, agganciandolo in basso alle serie di anelli
ferrei e fissando in alto e mimetizzando la sua parte superiore, costituita da una
rete metallica tanto sottile quanto resistente al taglio, allo strappo e allo
sfondamento. Il dispositivo è realizzato in modo che il peso dei due corpi sul
piano del talamo nuziale faccia scattare la trappola, imprigionando i due
amanti nella rete inviolabile.
Fingendosi ignaro e immerso in questioni personali, Efesto simula una
partenza per l’isola di Lemno[60], in modo da rendere sicuri
gli amanti di una sua prolungata assenza. Afrodite ed Ares si adagiano fiduciosi
sul talamo, provocando la caduta di scatto della rete metallica che impedisce
loro di muovere braccia e gambe, rendendoli subito consapevoli di non poter
sfuggire[61].
Efesto esce dal nascondiglio e chiama a raccolta gli dei per esporre gli
adulteri al pubblico ludibrio: si sprecano motti di spirito e scoppi di risa
per la comica situazione dei due sorpresi e immobilizzati come pesci in una
rete nel momento stesso in cui credevano di poter tranquillamente soddisfare la
propria lussuria. Ma gli dei, oltre a deridere i traditori, ammirano e
celebrano il lavoro di Efesto che, dal ruolo di ingannato e umiliato dal tradimento
della moglie che gli preferisce un uomo più avvenente e brillante, passa a
quello del vincitore che, con l’astuzia e la perizia del costruttore di
trappole ha sconfitto e umiliato il dio della guerra[62], ridicolizzando anche il ruolo
di seduttrice irresistibile di sua moglie. La metis di Efesto ha avuto la meglio,
e lui che è considerato lento, brutto e deforme (cholos) ha catturato
Ares per antonomasia attivo, attraente e atletico. Di passaggio, notiamo che
Ermes alla vista dei fedifraghi, pungolato dal fratello Apollo che conosceva la
sua passione per Afrodite, afferma che avrebbe accettato di essere imbrigliato
in vincoli tre volte più stretti, pur di andare a letto con la dea.
L’episodio ci consente di caratterizzare le risorse strategiche di intelligenza
di Afrodite. Come già notato più sopra, anche se considerata una potenza di
metis, divenuta preda della passione perde l’assetto mentale fondamentale per l’esercizio
delle sue abilità, ossia la continua vigilanza interpretativa. Non contempla la
possibilità di essere già stati scoperti, del rischio di reazioni del marito e,
soprattutto, non si prefigura ciò che Efesto potrebbe
fare.
È questo un limite che, in forme diverse e a partire da differenti dotazioni
di metis, troviamo in tutte le divinità olimpiche: in particolari circostanze,
sia per mancanza di giusta distanza all’interno di rapporti affettivi, sia
perché distratti da interessi preminenti, tutti gli dei, da Zeus a Eolo, possono
essere ingannati, comportarsi da stolti o non trovare vie d’uscita alle aporie,
rimanendo serrati in una rete o inibiti da vincoli. Metis no: alla figlia di
Oceano e Teti non capita nulla di simile perché è sempre presente a sé stessa,
non può essere catturata con l’astuzia, può essere vinta solo dalla forza di
Zeus che la ingoia per assumere la sostanza della sua identità. Metis è sempre
lei a menare le danze e, se non può farlo, si ritira in buon ordine, ma non
cambia la sua natura. Metis è pura cognizione.
Platone, che aveva contribuito a conferire al termine metis il nuovo
significato di misura, quale paradigma di quella saggezza e prudenza che
caratterizzerà la ragione classica e lo stile di pensiero dei greci, rimarca le
differenze con la concezione arcaica: i filosofi, almeno da Socrate in poi, non
sono disposti ad accettare come valore assoluto l’esercizio di strategie per il
perseguimento di scopi pratici. In questa concezione del IV secolo a.C., una
dea dell’intelligenza pratica mal si adatta al ruolo di grande generatrice di
tutti gli immortali; tuttavia, Platone conserva, come patrimonio culturale, le
grandi narrazioni dei secoli precedenti e riferisce di Metis quale madre di Poros,
l’Espediente, che si unisce a Penía, la Povertà, per generare Eros,
l’Amore fisico e sensuale. Se consideriamo Penía come l’immagine di chi ha
bisogno e Poros come uno stratagemma prodotto dalla metis, appare
evidente la dimensione metaforica dell’amor profano che nasce dall’unione della
tecnica di seduzione col desiderio fisico.
La
metis del Cavallo di Troia, che cavallo non è. Come si è notato in
precedenza, non vi è stato col cambiare delle epoche l’abbandono di un certo
genere di miti e la sostituzione con strutture differenti di racconto, tuttavia
nell’evoluzione diacronica si può rilevare un progressivo spostamento del focus
principale di interesse dalla celebrazione della metis quale dote divina e prodigiosa
che salva i mortali dai pericoli naturali, all’esaltazione dell’abilità nel
concepire trame astute che, con l’inganno, ottengono il perseguimento di un fine.
Il Cavallo di Troia, tra leggenda e mito, è il migliore esempio di questa
transizione culturale.
La ricostruzione del fatto storico è quanto mai ardua, per le scarse
tracce reperite nei documenti, e si deve limitare alle circostanze sicure: i Greci,
dopo dieci anni di assedio infruttuoso della città di Troia, decidono di
fingere la desistenza e l’abbandono dell’impresa militare, lasciando la vicina spiaggia
da loro occupata mentre incaricano Epeo di sovrintendere la costruzione di un
manufatto da donare ai nemici assediati in segno di pace. Secondo l’uso del
tempo, i popoli in guerra che raggiungevano un accordo di armistizio o concordavano
la definitiva cessazione delle ostilità si scambiavano doni simbolici. Si ha
notizia, ad esempio, di scudi giganteschi, e dunque impossibili da portare, o
di covoni, veri e propri monumenti di fasci di grano più grandi di qualsiasi
bica, donati agli ex-nemici quali simboli di difesa e prosperità. Compiuto il
manufatto ligneo come dono simbolico collocato sulla spiaggia, le milizie greche
riprendono il mare: la flotta veleggia al largo fino a scomparire alla vista
dei Troiani assediati, così simulando un ritorno in patria, ma in realtà ripara
presso l’isola di Tenedo, in attesa degli eventi.
Secondo gli studiosi più autorevoli, il mito del Cavallo è costruito
sulla leggenda per rappresentare nella metis l’unità della perizia artigianale
di costruzione con la strategia operativa: Atena esprime tale unione come
protettrice di costruttori di navi e piloti. Tektaínesthai è il verbo
che si usa sia per descrivere il lavoro del carpentiere che per designare la
costruzione di un tranello, di una trappola: “Tale è precisamente il famoso
cavallo di Troia: contemporaneamente astuzia di guerra, ispirata a Ulisse da
Atena, e strumento di legno, fabbricato da Epeo con l’aiuto della stessa
divinità[63].
Ma, torniamo sulla spiaggia troiana e riprendiamo dal punto in cui sulle
tracce storiche si inseriscono le parole del mito: Omero non ne parla nell’Iliade,
che si conclude con i citati giochi in onore di Patroclo e col funerale di
Ettore ucciso da Achille, e vi fa solo un breve riferimento nell’Odissea;
dunque, la storia che si tramanda in letteratura risale fondamentalmente a
Virgilio, e precisamente al II libro dell’Eneide.
Enea, il principe ed esule troiano che diventerà capostipite genealogico
dei fondatori di Roma, in una tappa del suo viaggio racconta alla regina di
Cartagine, Didone, che Ulisse aveva escogitato un astuto piano per invadere Troia,
superando le mura rivelatesi invalicabili dopo un decennio di assedio:
costruire come dono di pace un gigantesco cavallo di legno, grazie all’opera di
Epeo ispirato da Atena, nascondere nel ventre cavo del manufatto ligneo i guerrieri
più valorosi di Agamennone, che lo stesso Odisseo avrebbe guidato, inviare Sinone
per convincere i Troiani con una storia falsa e spergiura a portare il Cavallo all’interno
del perimetro della città e, al momento propizio, sferrare l’attacco e mettere
a ferro e fuoco Troia.
Il racconto di Enea a Didone è ricco e articolato, perché include altri
episodi a loro volta entrati nel mito, come l’opposizione di Cassandra e, soprattutto,
la vicenda di Laocoonte, un veterano troiano divenuto sacerdote di Apollo che
si oppone all’introduzione del Cavallo nel perimetro cittadino, pronunciando la
famosa frase “Timeo Danaos et dona ferentes”, e poi, quando decide di immolare
un toro, due terrificanti serpenti emergono dalle acque aggredendo i suoi due
figli e stritolando anche lui che cerca di salvarli.
La sciagura capitata a Laocoonte, che si opponeva alla risoluzione di
abbattere in un punto le mura ciclopiche della città per permettere l’ingresso
del dono simbolico, fu interpretata dai Troiani come un segno di un volere
divino a sostegno dell’accesso del Cavallo e, dunque, si procedette in tal senso.
Virgilio, attraverso il racconto di Enea a Didone, enfatizza il ruolo di
Sinone, deprecandolo per l’immoralità del comportamento, ma sottolineando che
senza la sua recita l’inganno non sarebbe andato a buon fine. Il giovane si consegna
spontaneamente al nemico, chiedendo protezione e raccontando che Ulisse aveva
convinto l’indovino Calcante a immolarlo in sacrificio per ottenere un
tranquillo ritorno in patria, e di essere riuscito a liberarsi e fuggire prima
di essere ucciso, facendo perdere le sue tracce nelle paludi. Alla domanda di
Priamo sulle ragioni del ritiro dei Greci, Sinone ha la sua bella storiella
pronta: Atena non protegge più gli Achei perché Ulisse ha profanato un suo
tempio, allora il re di Itaca si è ritirato e come offerta di espiazione del suo
sacrilegio ha fatto costruire il gigantesco Cavallo in onore della dea, che
sarà così venerata anche dai Troiani. Ma perché – si chiedono i Troiani – il dono
simbolico ha quella dimensione eccezionale? Sinone ha anche qui la risposta
pronta: perché in tal modo non può essere condotto all’interno della città,
cosa che provocherebbe l’ira di Minerva contro i Greci. Ennesima menzogna per
favorire la decisione di portare l’enorme manufatto oltre le mura ciclopiche,
rafforzata da un’ultima invenzione suggestiva: se il cavallo fosse stato danneggiato
o addirittura distrutto dai Troiani, questi avrebbero subito una sicura
persecuzione da parte della dea.
Il resto lo sappiamo: Ulisse e gli altri uomini[64] che erano nel Cavallo prendono
Troia e la danno alle fiamme[65].
Sulla storicità di questo racconto esprime dubbi già Pausania[66] nel II secolo d.C., notando
che la presunta dabbenaggine dei Troiani è assolutamente irrealistica, e che il
resto della trama esposta nell’Eneide è un’evidente costruzione letteraria per
cercare di rendere verosimile uno spunto leggendario. Nel corso dei secoli,
accanto agli innumerevoli esercizi narrativi sul tema, sono stati effettuati dagli
storici vari tentativi di rintracciare possibili elementi di realtà all’origine
del racconto ma, non riuscendo a reperire dati documentali, si è proceduto per
congetture verosimili, basate sulla conoscenza storica dell’epoca. Ad esempio,
si è ipotizzato che il Cavallo di Troia non fosse altro che una macchina da
guerra, in particolare un “ariete da assedio” con testa di cavallo, anche se in
questo caso si deve rinunciare a uno dei pochi aspetti che trova suffragio
storico, ossia che all’interno del manufatto gigantesco fosse nascosto
un piccolo esercito.
La scoperta archeologica che proprio all’epoca della guerra di Troia si è
verificato un terremoto catastrofico in grado di far crollare le mura della città,
ha indotto altri storici a ipotizzare che sia stato in realtà il sisma a causare
la resa di Ilio[67]. Anche se, proporre come ha
fatto Fritz Schachermeyr che l’espressione “Cavallo di Troia” denominasse l’evento
tellurico, ci sembra assolutamente improbabile, sia perché la storia del
periodo arcaico e antico non registra nessun episodio di denominazione secondo un
simile criterio, sia perché, più in generale, non appartiene allo spirito dei
tempi dare nome a una catastrofe naturale che si attribuiva all’ira di una
divinità.
Un fatto è certo: l’iconografia che rappresenta il Cavallo di Troia come
una sorta di enorme statua equina di legno appartiene a un’epoca di molto
posteriore a quella in cui i fatti storici si sono verificati[68]. E, anche se i glottologi esperti
di storia delle lingue avevano da tempo richiamato l’attenzione sul termine
greco ἵππος (hippos, cavallo), solo di recente si è giunti a
ricostruire il senso più probabile di quanto era stato trasmesso per secoli da una
tradizione esclusivamente orale.
Gli studi condotti prevalentemente da Francesco Tiboni,
archeologo navale dell’Università di Aix-en-Provence e Marsiglia, hanno orientato
l’attenzione su delle grandi navi onerarie, ossia adibite a trasporto merci, di
concezione fenicia ma ampiamente diffuse nel Bacino del Mediterraneo. Tali antichi
velieri possedevano una stiva straordinariamente capiente e talvolta navigavano
di conserva con le navi militari come unità di rifornimento. Potevano essere
riconosciute da lontano, grazie alla loro polena, ossia all’ornamento
scultoreo della prua: una gigantesca testa lignea di cavallo. Il loro nome era
precisamente ἵππος, per
intenzionale metonimia[69].
Dunque, il Cavallo di Troia era una nave da rifornimento che nascondeva
nella stiva il piccolo esercito comandato da Ulisse e 50 altri capi militari,
riadattata da Epeo in modo da poter figurare come dono simbolico, arenata sulla
spiaggia antistante le mura e offerta così a Priamo, re di Troia, perché la
esibisse in città come segno del patto di pace[70].
Questa spiegazione fa quadrare ogni cosa: dove avrebbero preso gli Achei il
legno stagionato e tutto il materiale necessario per costruire un gigantesco cavallo?
Quanto grande doveva essere perché la sua pancia contenesse gli armati con
panche per sedere e spazio per le armi? Dove erano poste le prese d’aria per
non creare sospetti? Perché Ulisse, che se fosse vissuto oggi sarebbe stato più
un ammiraglio che un generale, e i suoi marinai avrebbero dovuto regalare un cavallo
come simbolo di pace?
La “Nave di Troia” risolve ogni problema e giustifica pienamente l’intervento
di Atena, costruttrice di ogni genere di imbarcazione oltre che protettrice dei
marinai, e conferisce coerenza anche alle parole ingannevoli di Sinone: perché
come pegno di espiazione ad Atena è molto più plausibile l’offerta di una nave
che quella di un cavallo.
Considerazioni
conclusive. Questo percorso fra libri e documenti per indagare i miti all’origine della
concezione dell’intelligenza, ci ha consentito di riconoscere nelle personificazioni
lo strumento principale e più antico di rappresentazione del senso attraverso figure[71], spesso di notevole potenza
impressiva. Accanto a queste interpretazioni vissute delle qualità cognitive da
parte di animali, esseri umani e dei, abbiamo rilevato il tentativo di definire,
fin dai tempi più remoti, la metis in termini di logos,
servendosi della concettualizzazione semantica di un lessico caratterizzante.
Abbiamo compreso come la pensavano i Greci: le risorse dell’intelletto non sono
solo un mezzo per acquisire conoscenza da impiegare in modo codificato e spesso
standardizzato, come accade in molti ambiti di lavoro della realtà
contemporanea, ma sono il sale della vita e il fulcro di alcune professioni che
costituiscono esempio e modello per i filosofi.
Per i Greci, la maggiore sfida per la metis è quella affrontata dal
medico: le malattie presentano problemi vari, molteplici e cangianti, ai quali
è necessario rispondere con abilità ugualmente polimorfe. Nel Trattato delle
Epidemie l’elenco dei dati che si devono conoscere e considerare è davvero
impressionante[72] ma, per ottenere successo
diagnostico ed efficacia terapeutica, tutta la conoscenza risulta vana se il medico
non è capace di procedere con accorta prudenza ed acuta intuizione nel
formulare ipotesi sulla natura dei fenomeni e verificare con altri ragionamenti
la bontà o la fallacia di ciò che va supponendo. Platone afferma: “Il medico è
condannato ad aprirsi un cammino di congetture a colpi di opinione”. In altri termini,
è solo una metis attiva che può consentire il riconoscimento del tipo di
patologia e la scelta della strategia per farvi fronte.
Il male si sviluppa nel tempo e il suo andamento temporale può fornire preziose
informazioni, ma anche la scienza medica può contare su una struttura di metis
che attiene al tempo: la prognosi o procedura per il pronostico.
Questa operazione conduce il passato della conoscenza nell’attualità del
giudizio che anticipa il futuro mediante “tre operazioni intellettuali: riflettere
sulle circostanze presenti; paragonarle a quelle passate che presentano
caratteristiche analoghe; trarne conclusioni che permettano di prevedere l’evoluzione
della malattia”[73].
Il possesso della metis è una qualità intrinseca nella natura divina, di
per sé dotata di sapere, e nelle teogonie orfiche Metis è la madre di tutti gli
dei, dunque non meraviglia che i Greci considerino i medici che praticano la
filosofia al pari di divinità. D’altra parte, Esculapio o Asclepio era un uomo
mortale, considerato un semidio da Omero, e poi divenne dio della medicina,
immortale come suo padre Apollo[74]. Con lo sviluppo della civiltà,
il filosofo-medico diventa, da figura ideale, un concreto termine di paragone per
giudicare un areté, ossia un virtuoso che esercita come dovere
quotidiano l’eccellenza nella propria arte. Così il pilota, l’esperto nocchiero
più dell’auriga, per virtù di metis possono essere accostati al medico, il cui
occhio che scruta il dettaglio dei volti e dei corpi è modello per lo scultore
e il pittore che cercano di cogliere l’animo e il carattere di persone e divinità
da immortalare.
Ma, perché la concezione arcaica della metis e la natura concettuale di
Metis sono state neglette per tanti secoli? Solo per difficoltà nello studio
delle fonti? No, di certo. Sullo spirito di frode, danno, inganno, trappola,
tranello, strategia segreta, trama occulta ha storicamente pesato la condanna
dei due maggiori filosofi dell’età classica: Platone e Aristotele.
Platone pone tanta cura nell’individuare e descrivere gli elementi che lo
obbligano a condannare la metis come stile del pensiero e forma di
intelligenza, che la sola elencazione delle sue ragioni supererebbe le
dimensioni di questo saggio, ma ciò che possiamo sinteticamente dedurre è che
dietro i ragionamenti perfettamente logici vi è senz’altro una profonda
tensione morale.
Infatti, il grande pensatore ateniese denuncia la miseria e la nocività
dei procedimenti obliqui, delle dissimulazioni, delle strategie contorte e
celate, delle astuzie per colpire gli altri e ottenere un vantaggio, anche se
cerca soprattutto di dimostrarne l’approssimazione e la frequente impotenza al
di fuori di particolari circostanze favorevoli. La Verità affermata dalla filosofia,
secondo Platone, si erge a condanna di tutte le pratiche che hanno per
obiettivo e giustificazione l’efficacia nel perseguire uno scopo anche o proprio
a danno degli altri. Naturalmente, non è questo il caso dell’intelligenza medica
che, in quanto fondata sui principi della scienza, priva di inganno e intesa a ristabilire
la salute della persona ammalata, non deve ascriversi all’ambito della metis.
Per inciso, si ricorda l’ammirazione di Platone per i medici che supportava con
il suo lavoro di farmacista, consistente nel procurare e vendere erbe mediche (pharmakon).
Per Platone l’uomo civile, e perciò amante del sapere, doveva interpretare
il vero conosciuto nella propria vita con integrità e onestà, e diffonderlo come
aveva fatto il filosofo, matematico e astronomo Pitagora, e come farà il matematico,
filosofo e musicista Euclide che, a dispetto della cultura dell’inganno diffusa
nella sua patria, Megara, trasmette la verità
filosofica con rettitudine d’animo e rispetto degli altri. Oggi diremmo che nella
metis, non solo troviamo il “fine che giustifica i mezzi” di Machiavelli, ma riscontriamo
anche da parte di chi la usa la mancanza della fedeltà a una dottrina coerente.
Platone sentenzia che questa variabilità opportunistica è in “netto contrasto
con il Sapere immutabile, rivendicato da una metafisica dell’Essere e da una
logica dell’Identità”[75].
Aristotele, pur non apparendo come un giudice che condanna senza appello
la metis arcaica e antica, nelle Etiche a Nicomaco[76] opera una rigorosa distinzione
tra la saggezza prudente (phrónesis) e l’abilità
(deinótes), che sono invece costantemente
associate nella metis. La distinzione è operata sostanzialmente per stabilire
che l’abilità può essere considerata una strumentalità neutra al
servizio dell’intelligenza, ma la phrónesis ha
una precisa connotazione morale: la saggia prudenza si fonda sulla “deliberazione
in vista di un bene” e non può riguardare le strategie ingannevoli per vincere
guerre, battaglie o contese amorose. Infine, Aristotele, da grande tassonomista
e studioso della natura, prende le distanze dalle forme di pensiero arcaico che
attribuiscono al comportamento animale qualità dell’intelletto umano.
Se ben si comprende la posizione dei due filosofi del IV secolo a.C., che
difendono il progresso di civiltà raggiunto attraverso la lealtà, l’onestà, il
rispetto dell’altro e delle leggi, e che, condannando il pensiero arcaico,
intendono combattere la tentazione di ritornare a considerare un valore l’astuzia
dell’inganno, altrettanto bene si comprende che oggi la distanza antropologica,
associata all’enorme distanziamento temporale da quell’epoca storica, ci
consentono in tutta serenità di cercare, indagare, conoscere e riflettere sulle
tracce di tutto ciò che ha contribuito a costituire le radici occidentali del
concetto di intelligenza.
Fine
Monica Lanfredini
BM&L-17 ottobre 2020
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Unica eccezione: C. Diano, Forma
ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco. Neri Pozza, Vicenza
1967. Diano, attraverso una lettura fenomenologica del pensiero dell’antica
Grecia, descrive alcuni aspetti della metis nell’opposizione fra Ulisse e Achille
(si veda pp. 56 e seguenti).
[2] Jeanmaire
H., in Revue Archéologique,
pp. 12-39, 1956.
[3] Cfr. Esiodo [attr.]
Scudo, 214 e seguenti.
[4] Il leopardo o Panthera pardus e altri
felidi simili del genere Panthera hanno
un manto fulvo costellato da macchie in forma di rosette. In Italia, nel linguaggio
popolare, erroneamente si chiama pantera solo la pantera nera; il colore nero è
dovuto alla mutazione di un gene recessivo nel leopardo e dominante nel giaguaro.
[5] Esopo, Fab., 37 e 119. Naturalmente
l’attribuzione di metis agli animali, secondo processi tipici dell’intelletto
umano, è il prodotto di un pensiero “umanomorfo” originato
in epoca arcaica. Le conoscenze neuroscientifiche oggi ci consentono di comprendere
le peculiarità neurofunzionali e i limiti dell’intelligenza animale.
[6] Aion
dipenderebbe dalla radice sanscrita -ayu che
dà origine alle parole che designano la forza vitale dalla quale deriva la vita
umana, così come a termini riferiti alle temporalità della vita (Cfr. Émile Benveniste, Expression indo-européenne
de l’éternité. Bull Soc Linguistique 38, 1937). Sono state proposte numerose altre
etimologie, nessuna delle quali ha trovato consenso unanime.
[7] Si veda in Giorgio Agamben, Infanzia
e Storia. Einaudi, Torino 1979. Gli affascinanti studi su aion sono stati analizzati al nostro Seminario Permanente
sull’Arte del Vivere.
[8] Questa sintesi interpretativa, basata
sugli studi di H. J. Mette, è coerente con la visione di Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant.
[9] Il problema maggiore è consistito
nel fatto che i dati di conoscenza sono emersi nel tempo in tanti differenti lavori
d’archivio e archeologici concepiti in progetti di studio con fini diversi,
spesso considerati super-specialistici e conseguentemente ignorati dagli studiosi
che si occupavano di argomenti più generali. Un’idea di questa frammentazione
si può avere consultando le bibliografie monumentali fornite da Marcel Detienne
e Jean-Pierre Vernant, che hanno avuto il merito di estrarre tutto quanto riguardasse
Metis, facendolo entrare in una stessa memoria.
[10] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant,
Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, p. 97, BU Laterza,
Roma-Bari 1999.
[11] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant,
op cit., idem.
[12] Uno dei più consultati al mondo,
perché estremamente compatto, è quello di Michael Grant e John Hazel (Dizionario
della Mitologia Classica, attualmente pubblicato in Italia da CDE Milano su
una licenza SugarCo del 1989, quale traduzione di Who’s Who in Classical Mythology,
con copyright nominale degli stessi autori risalente al 1979), autori che
hanno scelto di riportare in estrema sintesi i temi mitici nelle versioni più
note e semplificate, nello stile delle mini-trame delle guide televisive.
[13] Ho affinato i metodi di questo
esercizio attraverso anni di partecipazione al seminario permanente sull’Arte
del Vivere.
[14] O. Kern, Metis bei Orpheus, «Hermes»,
pp. 207 sg., 1939.
[15] Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op cit., p. 98.
[16] O. Kern, Orphicorum
Fragmenta, frg. 168, p. 201, Berlino 1963.
[17] Platone, Filebo, 66c.
[18] Di fronte all’incapacità, all’impossibilità
o alla rinuncia ad impiegare processi di logica elementare per spiegare esperienze
percepite come realtà fenomenica, si faceva ricorso a forme di pensiero primitivo
o magico che, lungi dall’essere un esercizio di fantasia a briglia sciolta,
presenta delle caratteristiche costanti. Una delle caratteristiche del pensiero
paleologico è l’identità dei predicati in rapporto ai soggetti, che
consente di accostare questo pensiero a quello dei primitivi, che ancora
esistono in alcune regioni della terra, e a quello delirante degli psicotici,
come è stato illustrato dal nostro presidente in numerose occasioni. Nel pensiero
paleologico se due persone fanno la stessa cosa o hanno una stessa virtù
(identità dei predicati), anche se sono diverse e lontane fra loro nello spazio
e nel tempo, possono essere fra loro identificate (identità dei soggetti). Non
si può escludere che alle origini del pensiero mitico possa aver operato anche un
meccanismo di questo genere.
[19] E. Lobel, Oxyrhyncus Papyri,
XXIV, 1957, n° 2390, cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p.
103. La citazione dei titoli della bibliografia essenziale su questo papiro eccederebbe
le dimensioni di questo intero scritto.
[20] Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op cit., p. 124.
[21] Scolio a Licófrone,
Aless., II 175, pp. 84 e segg.; cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op
cit., p. 124.
[22] Er., VII 191-2, cit. in Marcel
Detienne e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 124.
[23] Cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op. cit., p. 126.
[24] Cfr. Aristofane, Le Donne al
Parlamento (Ecclesiazuse).
BUR, Rizzoli, Milano 1984. In un’altra traduzione: “Si direbbe che si è applicata
una barba a delle seppie rosolate” (Ecclesiazuse, 126, cit. in Detienne e Vernant, p. 127).
[25] J. Taillardat, Les Images d’Aristophane, p. 61, 1965.
[26] Mi riferisco al papiro cosmogonico
di Alcmane scoperto da Lobel, che ho citato in precedenza.
[27] Cfr. Will Durant, Storia
della Civiltà – La Grecia, vol. II, libro terzo: L’Età dell’Oro (480-309 a.C.),
pp. 69-70, Edito Service S. A. Ginevra (1939-1966) con Arnoldo Mondadori Editore
(per l’edizione italiana: 1956-1966), Ginevra 1966.
[28] Mahaffy, Greek Life and Thought, p. 72, London 1887.
[29] Cfr. Will Durant, op. cit., p. 70.
[30] Cfr. Will Durant, op. cit., idem.
[31] Cfr. Archippe,
frammento 27, I, p. 802 Edmonds; Antifane,
frammento 26, II, p. 172, Edmonds; cfr. anche F. Bechtel, Die attische frauennämen, 1892, Indice (maggiori dettagli nei saggi di
Detienne e Vernant su collocazione delle opere citate e biblioteche per il
reperimento).
[32] Cfr. Marcel Detienne & Jean-Pierre Vernant, Cunning
Intelligence in Greek Culture and Society, The University of Chicago Press,
Chicago and London 1991.
[33] In un’epoca in cui non esistevano
documenti di identità, fotografie e codici fiscali, e l’identificazione si
basava sul riconoscimento visivo, il ricorso al camuffamento e al cambiamento di
identità era piuttosto frequente.
[34] A supporto di questa interpretazione vi è anche
la dicotomia culturale ateniese che contrapponeva le donne intelligenti e sagge
a quelle sciocche e lascive: entrambe potevano essere belle, ma la bellezza virtuosa
(areté) rendeva le prime dee immortali, mentre la bellezza adoperata
strumentalmente rendeva le seconde, nella migliore delle ipotesi, aspiranti al
ruolo di ninfe.
[35] Le doti di astuzia di Achille
sono state associate in un’ipotesi all’espressione diffusa dalla Magna Grecia a
tutto il territorio italico di “figlio di… buonadonna”
(figlio di etera/sepia) per indicare un furbo di tre
cotte; ma l’ipotesi non ha trovato supporto in prove documentali.
[36]
G. Perrella, AÍTHUIA - L’uccello che affronta l’imprevedibilità del
mare e la paura dell’ignoto. BM&L-Italia, Firenze 2012. Il saggio fu esteso
come materiale per il Seminario Permanente sull’Arte del Vivere dell’anno in corso,
e costituì uno spunto per studiare il rapporto fra strategie intellettive di
adattamento e ragione ispirata alla concezione morale.
[37] La tradizione, tramandata da
Dionisio in Ixeuticon, è riferita da Marcel Detienne
e Jean-Pierre Vernant, op cit., p. 161. Oggi diremmo che per metempsicosi si
era trasferita in loro l’anima degli ominidi protoumani che avevano scoperto la
possibilità di pescare come gli uccelli acquatici e sfamarsi di pesce.
[38] Ristampato da Hildesheim nel 1966.
[39] La commedia stessa sarebbe
stata inventata da Susarione di Megara,
secondo un’antichissima tradizione attestata da molti scritti, ma contestata da
Aristotele nella Poetica.
[40] L’antica espressione “lacrime megaresi”
indicava le lacrime di chi fingeva di pentirsi o dispiacersi per le conseguenze
di una cattiva azione che aveva compiuto deliberatamente; nel Medioevo fu sostituita
da “lacrime di coccodrillo”, basata su una suggestione popolare che interpretava
come pianto la periodica lacrimazione fisiologica di questi animali.
[41] (Cfr. Pausania, Periegesi della
Grecia I, 5, 3). L’opera pubblicata nel II secolo d.C. è una straordinaria raccolta
di storia geografica suddivisa in dieci libri che contengono le documentazioni
autentiche di viaggiatori (periegeti) e storiografi di età ellenistica, età classica
come Erodoto, Tucidide, Senofonte e Polibio, e di epoca arcaica, quali Eumelo di Corinto, i lirici e gli autori del ciclo epico.
[42] Esichio,
n° 2748. Kurt Latte, Copenaghen 1913-2009. Esichio
fu un grammatico (oggi diremmo linguista lessicografo) greco nato ad Alessandria
d’Egitto, autore di un famoso glossario di termini greci rari e oscuri, il cui titolo
è, in italiano, Collezione alfabetica di tutte le parole. Nel glossario si
trova una nota sulla vicenda di Pandione. L’opera
sopravvive in un manoscritto fortemente corrotto del XV secolo, custodito nella
biblioteca di San Marco a Venezia. L’unica edizione contemporanea è quella di
Kurt Latte avviata nel 1913 con la pubblicazione del primo volume e completata
nel 2009 con l’ultimo volume, grazie al patrocinio dell’Accademia Danese di Copenaghen.
La difficoltà per il reperimento della nota di Esichio
può spiegare l’erronea ricostruzione della vita di Pandione
riportata in alcuni testi, come in Wikipedia.
[43] Molti anni fa, Giuseppe Perrella
propose uno stimolante paragone fra i due tipi di miti e le due categorie principali
di deliri della psichiatria classica: 1) i deliri illogici e irrealistici
come quello del paziente che afferma di aver avuto una Ferrari fino a qualche
minuto prima, ma che deve avergliela portata via un extraterrestre di passaggio
con la sua astronave; 2) deliri logici e strutturati come quello di uno
psicotico che sosteneva di essere stato licenziato perché faceva il tifo per una
squadra di calcio rivale di quella del suo direttore.
[44] Da questo genere di giochi, funerari
e celebrativi, nasceranno poi le Olimpiadi.
[45] Cit. in Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op. cit., p. 173.
[46] Aiace stesso dice: “Ah, come ha
fatto inciampare i miei piedi la dea che, sempre, come una madre sta accanto a Ulisse
e lo protegge!” (Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 173.)
[47] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 173.
[48] Cfr. Dietrich Wachsmuth, Pompimos ho daimōn:
Untersuchung zu den antiken Sakralhandlungen bei Seereisen. Tesi/dissertazione pubblicata a
Berlino nel 1967.
[49] Si veda in Scoliaste di Apollonio
Rodio I, 917; Cfr. anche, per la cerimonia di Samotracia, Francesco Zanotto,
Dizionario Pittoresco di ogni Mitologia d’Antichità d’Iconologia e delle
Favole del Medio Evo, Voll. 1-11, Vol. 1, p. 31, 1844.
[50] Scoliaste di Apollonio Rodio,
I 917. Si ricorda che Apollonio Rodio fu un erudito poeta greco nato ad
Alessandria d’Egitto nel 295 a.C., discepolo di Callimaco e collega di Eratostene,
bibliotecario della mitica Biblioteca d’Alessandria, si trasferì a Rodi dove morì
nel 215 a.C.
[51] Scoliaste di Licòfrone, 359, Scheer. Si ricorda
che Licofrone fu uno studioso erudito, poeta, tragediografo e commediografo,
nato in Calcide nel 330 a.C.
[52] Orfeo (attr.)
Argonautiche, 695 e segg.
[53] Mentre alcuni la identificano
con la folaga, e Arato (Fenomeni, 933 e sgg.) ed Eliano (H. A. VII,
7) precisano la somiglianza con la cornacchia di mare, per Detienne e Vernant questo
eróidios è senza dubbio una specie di airone, forse l’Ardea
nucticorax.
[54] Solo di recente la ricerca
neuroscientifica ha scoperto i meccanismi biologici che consentono agli uccelli
l’orientamento rispetto all’asse della terra.
[55] Apollonio Rodio I, 105-110.
[56] Se la versione orfica sembra una
sceneggiatura da film di Spielberg, la versione di Apollonio è più prossima al
cartone animato.
[57] Scoliaste di Licòfrone, 359, p. 139, 27-30, Scheer;
cfr. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant, op. cit., p. 180.
[58] Il mondo latino eredita questi
stessi miti, con Venere al posto di Afrodite, Vulcano per Efesto, Mercurio per
Ermes e Marte per Ares.
[59] Cfr. Odissea, VIII,
266-366.
[60] Proprio nel VI secolo a.C.,
quando fu scritta l’Odissea, l’isola di Lemno passò sotto il dominio di Atene, pur
distando oltre 300 km di mare dalla polis.
[61] Cfr. Odissea, VIII, 296-99.
[62] In senso stretto, i Greci consideravano Ares il dio
degli aspetti più feroci, distruttivi e cruenti della guerra e delle battaglie,
riservando ad altre divinità il patrocinio degli aspetti più logico-strategici
e ginnico-tecnici delle “arti marziali”.
[63] Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op. cit., p. 183; cfr. Odissea, VIII 493 e segg.; cfr. N. Yalouris, Athena, als Herrin der Pferde,
“Museum Helveticum” 7, pp. 67 e segg., 1950.
[64] Per Apollodoro
erano 50 i capi, Quinto di Smirne nel suo Posthomerica
dà il nome di 30 capi, ma dice che ve ne erano molti altri; una tradizione
tarda ha ricostruito un elenco di 35 nomi, che includono Odisseo, Menelao,
Neottolemo, Diomede, Eurialo, Aiace ed Eurimaco.
[65] È solo una suggestione cinematografica
quella del Cavallo di Troia che brucia per ultimo nell’incendio della città,
come si vede nel film Troy.
[66] Pausania, Periegesi della
Grecia, op. cit. (vedi nota 40).
[67]
Cfr. in Eric H. Cline, The Trojan War. A Very Short Introduction 2013.
[68] È interessante notare che l’evoluzione
della rappresentazione nel corso dei secoli ha seguito sempre più le esigenze
artistiche e sempre meno la descrizione leggendaria, tanto che dall’antico
disegno di un’enorme statua lignea con un’approssimativa forma equina si è
giunti in epoca moderna alla rappresentazione del Tiepolo, che dipinge un
magnifico destriero bianco, con tanto di criniera e coda, solo di proporzioni accresciute
rispetto agli equini reali.
[69] Francesco Tiboni,
La presa di Troia. Un inganno venuto dal mare. Edizioni di storia e
studi sociali, Modica 2017.
[70] Simbolo viene da symbolein, ossia “gettare insieme”: il simbolo significava
un patto. Symbolon era una grande moneta di
terracotta che richiamava le vere e piccole monete metalliche: i due contraenti
di un patto spaccavano in due il symbolon e
ciascuno ne deteneva una metà; quando si rincontravano per rendere esecutivo l’accordo,
ciascuno recava con sé la propria metà e insieme si verificava il combaciare
delle parti che sanciva la titolarità dell’accordo preso.
[71] Considerando la figura una
rappresentazione a metà tra immagine e concetto.
[72] Epidemie, I 10 (Littré, II 668-670).
[73] Marcel Detienne e Jean-Pierre
Vernant, op. cit., p. 242.
[74] Esiodo lo deifica nella sua Teogonia
attribuendogli la nascita da Apollo e Arsinoe.
Pindaro vuole che la madre sia invece Coronide, legando la nascita del medico
all’origine del corvo. Apollo, infatti, dopo aver amato Coronide le pone a guardia
un uccello bianco, dalle piume nivee come la purezza. Coronide, incinta di
Esculapio, tradisce Apollo con Ischi; sicché il dio, per punire l’imperizia
dell’uccello, gli muta in nero il colore delle penne bianche.
[75] Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant,
op. cit., p. 246.
[76] Si segue qui la correzione apportata
dall’illustre linguista e grecista Aniello Gentile alla comune traduzione “Etica
Nicomachea” del titolo di questa celebre opera di
Aristotele.